Farmacovigilanza

Gonadotropine e infertilità di coppia: il position paper dell’Agenzia Italiana del Farmaco.

In data 26/01/2016 è stato pubblicato sul portale web dell’Agenzia Italiana del Farmaco un position paper relativo alle gonadotropine utilizzate per il trattamento farmacologico dell’infertilità di coppia. In tale documento è stato riportato quanto ad oggi noto rispetto agli ambiti e alle diverse modalità di utilizzo di tali ormoni sia nell’uomo che nella donna, alla loro sicurezza, ai possibili approcci farmacogenomici e farmacogenetici, nonché i loro utilizzi in modalità off-label.           
L’infertilità di coppia viene definita come l’incapacità di concepire dopo un periodo di 12-18 mesi di rapporti sessuali regolari senza adozione di misure contraccettive. Essa può essere causata da fattori maschili (come alterazioni quantitative e qualitative dei parametri seminali), femminili (ad esempio anovulazione da sindrome dell’ovaio policistico), o riferiti a entrambi i membri della coppia. Tuttavia la causa rimane sconosciuta per circa il 5%-15% dei casi. Tale condizione interessa il 8-20% delle coppie in età fertile e si stima abbia una prevalenza internazionale pari al 3,5-16,7% nei Paesi industrializzati e al 6,9-9,3% nei Paesi in via di sviluppo. L’approccio farmacologico all’infertilità di coppia, sebbene varii a seconda della causa eziologica, si avvale, sia nell’uomo sia nella donna, dell’impiego delle gonadotropine umane,
da sole o in combinazione e di altre molecole. La varietà dei prodotti disponibili nell’attuale armamentario terapeutico consente di effettuare protocolli di trattamento altamente personalizzati.       
Le gonadotropine sono ormoni di natura glicoproteica, che esercitano un effetto stimolante sulle gonadi maschili e femminili ed includono l’ormone follicolo-stimolante (FSH) e l’ormone luteinizzante (LH), di origine ipofisaria, e la gonadotropina corionica (HCG), di origine placentare. Quelle utilizzate a scopo farmacologico sono ottenute attraverso tecniche di estrazione dall’ urina umana (gonadotropine di I, II, e III generazione) o mediante tecnologia del DNA ricombinante (gonadotropine di IV generazione). Le gonadotropine attualmente disponibili nel nostro Paese includono sia principi attivi di origine estrattiva (urofollitropina, menotropina e gonadotropina corionica) che di origine ricombinante (follitropina alfa, follitropina beta, corifollitropina alfa, lutropina alta, coriogondotropina alfa), utilizzati singolarmente o in associazione, e rimborsabili da parte del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) secondo la nota AIFA n°74. Tra le forme di gonadotropine più recenti, è oggi disponibile la corifollitropina alfa, una nuova forma di FSH ricombinante, caratterizzata da una maggiore durata di azione che permette, per i primi sette giorni di stimolazione, di effettuare una singola somministrazione settimanale rispetto alle singole somministrazioni giornaliere richieste dagli altri tipi di FSH. Ancora più recentemente è stata prodotta la Follitropina delta, FSH ricombinante espressa unicamente in linee cellulari fetali di retina umana. Relativamente agli aspetti di sicurezza, nel documento si sottolinea che, secondo i dati presenti in letteratura, non sono emerse differenze significative tra le gonadotropine di origine estrattiva e quelle ottenute con tecnica del DNA ricombinante in termini di tassi di gravidanze multiple, interruzione del trattamento e aborto spontaneo, né di frequenza della sindrome da iperstimolazione ovarica. Un ulteriore aspetto di sicurezza che è stato correlato all’utilizzo farmacologico delle gonadotropine è l’eventuale rischio di trasmissione iatrogena di malattie prioniche attraverso le iniezioni di tali ormoni. In merito a ciò, seppur, come riportato dalle società scientifiche European Society of Human Reproduction and Embryology (ESHRE) e la Canadian Fertility and Andrology Society (CFAS), ad oggi non esistono dati significativi a supporto di tale rischio, in Italia, in accordo al parere espresso già nel 2005 dall’Istituto Superiore di Sanità e secondo la Determinazione del 20 Luglio 2006 “Modifica degli stampati dei medicinali contenenti gonadotropine derivate da urine umane” (GU 27/07/2006 n.173), tutte le aziende farmaceutiche produttrici di gonadotropine derivate da urine sono obbligate a riportare nei loro stampati che “il rischio di trasmissione di agenti patogeni conosciuti o sconosciuti non può essere totalmente escluso”. Tuttavia, nel documento viene anche sottolineato che, per motivi regolatori, tale avvertenza non è riportata sugli stampati dei prodotti autorizzati con procedure europee di Mutuo Riconoscimento o Decentrata. Inoltre, sulla base dei dati attualmente disponibili, anche l’eventuale associazione tra l’uso di gonadotropine e il rischio di cancro ovarico, della mammella o endometriale, non sembra essere confermata né significativa. Tuttavia in tale documento si sottolinea che risulta necessario informare le pazienti che l’infertilità stessa è stata correlata ad un maggiore rischio di tumore ginecologico (ovarico, endometriale e mammario), che sembra comunque indipendente dall’uso dei farmaci utilizzati per l’induzione dell’ovulazione. Relativamente ai dati attualmente disponibili relativi aspetti farmacogenomici, è emerso che la presenza di polimorfismi del gene codificante il recettore dell’FSH (FSH-R) sembrerebbe influenzare i livelli circolanti di FSH e la sensibilità del recettore all’ormone nella donna, mentre nel maschio il significato dei possibili polimorfismi risulta tuttora non chiaro. La possibilità di individuare la presenza di una particolare variante allelica e/o la combinazione di due o più varianti attraverso la conduzione di indagini farmacogenomiche nonché l’identificazione di markers genetici che caratterizzino i potenziali responders alle gonadotropine permetterebbero di “personalizzare” i protocolli di stimolazione, rendendoli più efficaci e più sicuri.
Infine, per quel che concerne gli impieghi off-label, questi riguardano principalmente HCG e FSH. In particolare HCG è usato come prodotto dimagrante, sebbene senza alcuna evidenza scientifica che sostenga tale modalità d’impiego, nella terapia del dolore cronico e per il miglioramento delle prestazioni sportive (con effetto doping), mentre l’FSH viene utilizzato in off-label nell’ambito della pratica del Social Freezing, che consiste nella crioconservazione degli ovociti di una donna ancora in età fertile per poterli riutilizzare in età avanzata al fine di garantire un successivo concepimento, altrimenti difficile a causa dell’invecchiamento. In tale contesto l’FSH è utilizzato come stimolante ormonale nella donna allo scopo di ottenere la crescita follicolare multipla e consentire il prelievo ovocitario necessario per consentire il successivo congelamento.

Per ulteriori approfondimenti il documento è consultabile e disponibile sul portale web dell’AIFA (http://www.aifa.gov.it/)

Fonte: AIFA

Aggiornate le raccomandazioni per la contraccezione in pazienti trattati con micofenolato.

In data 22 gennaio 2018, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), in accordo a quanto stabilito dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), ha pubblicato un’importante nota informativa di sicurezza relativa all’aggiornamento delle raccomandazioni per la contraccezione necessaria in pazienti trattati con acido micofenolico o il suo profarmaco micofenolato mofetile.
L’acido micofenolico (MPA) è un farmaco immunosoppressore, indicato per la profilassi del rigetto acuto in pazienti adulti sottoposti a trapianto di rene, fegato o cuore. Tale farmaco, agendo come potente inibitore selettivo, reversibile e non competitivo dell’enzima inosina monofosfato deidrogenasi, inibisce la via di sintesi de-novo del nucleotide guanosinico. In tal modo, MPA esercita la sua azione citostatica soprattutto a livello dei linfociti T e B, i quali risultano criticamente dipendenti dalla sintesi de-novo delle purine, a differenza di altri tipi cellulari che possono utilizzare meccanismi alternativi.     
Rispetto al profilo di sicurezza del micofenolato, come indicato nella scheda tecnica del farmaco, studi sugli animali avevano già evidenziato la sua tossicità riproduttiva ed è ormai noto che l’esposizione in utero prenatale a micofenolato risulta associata ad un aumento del rischio aborti (45-49%) nonchè di malformazioni congenite (23-27%), quali formazione anomala o assente dell’orecchio esterno/medio, palatoschisi e labioschisi, micrognazia* e cardiopatie. Pertanto, i medicinali a base di micofenolato, sono controindicati in donne fertili che non utilizzano un metodo contraccettivo efficace.    
Recentemente, in seguito ad una revisione condotta dal Pharmacovigilance Risk Assessment Committee (PRAC), cui ha fatto seguito la valutazione da parte del Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP) delle relative raccomandazioni, la Commissione Europea ha ritenuto necessario aggiornare le misure contraccettive richieste per i pazienti di sesso maschile e femminile in trattamento con tale farmaco. Per tale revisione sono stati valutati i dati clinici e non clinici, in paticolare quelli relativi a uomini che hanno avuto figli durante il trattamento con MPA o micofenolato. Sebbene la quantità di farmaco presente nel liquido seminale dell’uomo non sia stata determinata, sulla base dei risultati degli studi condotti sugli animali, il PRAC ha ritenuto che il rischio di effetti genotossici sulle cellule spermatiche non possa essere completamente escluso. Pertanto, l’EMA ora raccomanda che i pazienti di sesso maschile sessualmente attivi o le loro compagne utilizzino metodi contraccettivi affidabili durante tutto il trattamento con micofenolato e per almeno 90 giorni dopo l'interruzione di quest’ultimo. Tale raccomandazione sarà riportata sugli stampati del farmaco attualmente in fase di aggiornamento, dai quali sarà inoltre eliminata la precedente raccomandazione del 2015 che prevedeva che i pazienti di sesso maschile dovessero utilizzare il preservativo in aggiunta all'uso di un metodo contraccettivo altamente efficace da parte delle loro compagne, perché si ritiene non rifletta il reale livello di rischio.
Il rischio per le donne rimane immutato. Pertanto, i medicinali contenenti micofenolato e MPA restano controindicati nelle donne potenzialmente fertili che non utilizzano metodi contraccettivi affidabili. Si sottolinea, pertanto, che le pazienti in età fertile debbano utilizzare almeno un metodo contraccettivo affidabile (preferibilmente due) prima di iniziare la terapia, durante il trattamento e per 6 settimane dopo la sua conclusione.     
L’AIFA, infine, invita a segnalare qualsiasi reazione avversa associata a medicinali contenenti micofenolato o MPA, ribadendo l’importanza della segnalazione spontanea delle sospette reazioni avverse da farmaci, quale strumento indispensabile per confermarne un rapporto beneficio rischio favorevole nelle reali condizioni di impiego.

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*micrognazia:malformazione fetale caratterizzata dal ridotto sviluppo della mandibola rispetto alla mascella.

Fonte: AIFA

Importante nota informativa di sicurezza dell’Agenzia Italiana del Farmaco relativa a Xofigo® (radio-223 dicloruro).

Recentemente sul portale web dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) è stata pubblicata un’importante nota informativa di sicurezza relativa al radiofarmaco radio-223 dicloruro inriferimentoad un incremento dell’incidenza di mortalità e di fratture riscontrato nell’ambito di uno studio clinico di fase III.         
Il radio-223 dicloruro, che costituisce il principio attivo della specialità medicinale Xofigo®, è indicato per il trattamento di soggetti adulti affetti da carcinoma prostatico resistente alla castrazione, con metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali note. In particolare, ilradio-223va incontro ad un decadimento a sei fasi (fino a piombo-207), dando origine a prodotti di decadimento a breve emivita accompagnati dall’emissione di energia sotto forma di particelle alfa (95,3%), beta (3,6%) e gamma (1,1%). Dal punto di vista farmacodinamico, il radio-223 dicloruro mima l’azione del calcio, legando l’osso selettivamente nelle aree interessate da metastasi formando complessi con il minerale osseo idrossiapatite. L’emissione di energia sotto forma di particelle alfa induce la rottura della doppia elica del DNA delle cellule tumorali adiacenti, con conseguente effetto citotossico.       
La nota informativa dell’AIFA fa riferimento ad un incremento dell’incidenza di mortalità e di fratture emerso da uno studio clinico interventistico, multinazionale, randomizzato, placebo-controllato, condotto in quadruplo cieco, per il quale sono stati arruolati 806 pazienti affetti da carcinoma prostatico metastatico resistente alla castrazione (CRPC) naïve alla chemioterapia. Tali pazienti sono stati randomizzati in un rapporto 1:1 al trattamento con iniezione endovenosa in bolo di radio-223 dicloruro o placebo (ogni 4 settimane per 6 cicli) combinati con abiraterone acetato (1000 mg/os/1volta/die) + prednisone/ prednisolone (5 mg/os/2volte/die). Tale studio, iniziato il 30 marzo 2014, si concluderà nel 2019. L’AIFA, pertanto, fino a che non sia stata completata l’analisi complessiva dei dati di tale studio, raccomanda di non trattare i pazienti affetti da carcinoma prostatico metastatico resistente alla castrazione con radio-223 dicloruro in combinazione con abiraterone acetato e prednisone/prednisolone.

Fonte: AIFA

La Food and Drug Administration approva la prima angiotensina II umana sintetica.

Recentemente la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato Giapreza®, la prima angiotensina II umana sintetica, che sarà disponibile da marzo 2018 e commercializzata dalla Jolla Pharmaceutical Company. Tale nuovo farmaco, somministrabile per infusione endovenosa, rappresenta una nuova opzione terapeutica indicata per incrementare i valori della pressione arteriosa in pazienti adulti con shock settico o altro tipo di shock distributivo non adeguatamente responsivi alle altre terapie vasopressorie attualmente disponibili.          
Lo shock rappresenta una forma acuta di insufficienza circolatoria, caratterizzata da un inadeguato flusso ematico, e conseguente apporto di ossigeno, agli organi vitali. Può insorgere nel corso di processi patologici acuti (gravi traumi, infarto del miocardio, emorragie, peritoniti, ecc.), che causano riduzione della perfusione e, quindi, collasso cardiocircolatorio. Sebbene vi siano diverse forme di shock (ipovolemico, cardiogeno, settico, neurogeno e anafilattico), debolezza, pallore, sudore freddo, polso debole e frequente, ipotensione arteriosa, ipotermia e perdita di coscienza costituiscono i sintomi comuni alle varie forme di shock. Tale condizione patologica risulta particolarmente pericolosa per la salute del paziente in quanto l’inadeguata perfusione capillare, le alterazione a carico del microcircolo, la diminuzione dell'irrorazione dei tessuti nonché le relative alterazioni metaboliche tessutali (come l’acidosi tissutale) possono condurre a danno d’organo con possibile esito fatale. Infatti, il tasso di mortalità e i costi sia diretti che indiretti associati a tale condizione risultano maggiori di quelli correlati ad altre condizioni in acuto che richiedono il ricovero ospedaliero. Lo shock distributivo risulta essere la forma più comune nell’ambito dei ricoveri ospedalieri. L’approvazione da parte dell’FDA si basa sui risultati positivi emersi dallo studio multicentrico di fase 3, randomizzato, placebo-controllato, ATHOS-3, condotto in doppio cieco, per il quale sono stati arruolati 321 pazienti con shock persistente resistente alle catecolamine, che rappresenta una forma grave di shock vasodilatatorio. Secondo i risultati emersi da tale studio, il 70% dei pazienti trattati con Giapreza® ha raggiunto e mantenuto una pressione media arteriosa (MAP) ≥ 75 mmHg o un incremento di 10mmHg rispetto alla MAP al basale durante le 3 ore successive al trattamento. Tale nuovo farmaco risulta, dunque, caratterizzato da una risposta terapeutica rapida, robusta e sostenuta. Per quel che concerne il profilo di sicurezza, non sono emerse differenze significative tra i due bracci di trattamento in termini di percentuali di pazienti in cui si è manifestato almeno un evento avverso e di pazienti che hanno interrotto il trattamento. Tuttavia, è stato messo in evidenza un potenziale rischio di eventi trombo embolici venosi e arteriosi correlato a Giapreza®, AE prevenibili attraverso la somministrazione concomitante di un trattamento di profilassi per tromboembolia venosa. Grazie ai significativi benefici potenzialmente correlati a tale farmaco, sia in termini di sicurezza che di efficacia, Giapreza® ha ottenuto il programma di revisione prioritaria dell’FDA che ha permesso un iter di approvazione più rapido.

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Fonte: portale web della Food and Drug Administration    [https://www.fda.gov/NewsEvents/ Newsroom/ PressAnnouncements/ucm590249.htm]

Sicurezza della combinazione ombitasvir/paritaprevir/ritonavir

E’ recente la pubblicazione, sulla rivista Hepatology Research, dei risultati di uno studio che ha dimostrato efficacia e sicurezza della combinazione a dose fissa di ombitasvir/paritaprevir/ritonavir in pazienti affetti da epatite C (HCV) genotipo 1b con e senza compromissione renale [1].

I dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ad oggi,  stimano a 170 milioni i soggetti affetti da HCV nel mondo [2]. L’obiettivo primario del trattamentoè quello di raggiungere una risposta virologica sostenuta (SVR), definita come assenza di HCV RNA, a 12 e a 24 settimane dopo la sospensione del trattamento. L’eliminazione delle epatiti virali è una sfida globale, un obiettivo comune a tutti i Paesi del mondo, sollecitati dalla strategia dell’OMS che ha individuato nel 2030 l’anno in cui le morti legate a queste patologie dovranno ridursi sensibilmente, così come il numero dei casi di infezione dovuti al virus.

Dall’approvazione del primo Direct Antiviral Acting (DAA) nel maggio 2014, le opzioni terapeutiche disponibili sono oggi numerose. La combinazione ombitasvir/paritaprevir/ritonavir è stata autorizzata dall’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) in data 15/01/2015. Ombitasvir è un inibitore di NS5A di HCV, essenziale per la replicazione virale. Paritaprevir è un inibitore della proteasi NS3/4A dell’HCV, necessaria al clivaggio proteolitico della poliproteina codificata da HCV (nelle forme mature delle proteine NS3, NS4A, NS4B, NS5A e NS5B) ed essenziale per la replicazione virale. Ritonavir non è attivo contro l’HCV, bensì è un inibitore del CYP3A che aumenta l’esposizione sistemica al paritaprevir.

Lo studio retrospettivo multicentrico ha arruolato 235 pazienti (117 maschi e 118 femmine) di età media pari a 67 anni, classe di Child-Pugh A, di cui 54 con insufficienza renale, stimata come un valore di eGFR< 60 ml/min/1,73 m2 e 181 con funzionalità renale conservata. Dei pazienti inclusi nello studio, 5 presentavano un valore di eGFR <30 ml/min/1,73 m2. I pazienti sono stati trattati per la durata di 12 settimane.

Complessivamente, i tassi di risposta virologica rapida (RVR), la risposta alla fine del trattamento (ETR) e la risposta virologica sostenuta (SVR) sono stati rispettivamente del 78,7%, 98,7% e 98,7%. Tra i 181 pazienti con funzionalità renale conservata, l’RVR è stato del 77,3% (140/181), l’ETR del 98,9% (179/181) e l’SVR del 98,9% (179/181) mentre tra i 54 pazienti affetti da insufficienza renale, i tassi sono stati di 83,3% (45/54), 98,1% (53/54) e 98,1% (53/54), rispettivamente.

Non ci sono state differenze significative nelle SVR tra i due gruppi (p= 0,449 per RVR, 0,545 per ETR e 0,545 per SVR). Inoltre, nel gruppo dei 54 pazienti con funzionalità renale ridotta, il valore dell’eGFR non è cambiato in modo significativo durante il periodo di trattamento.

Solamente 2 pazienti hanno abbandonato lo studio per la comparsa di edema polmonare e polmonite interstiziale. Il resto delle reazioni avverse insorte sono risultate tutte lievi o moderate e non hanno determinato la sospensione del trattamento.

Tale studio ha, quindi, dimostrato che la terapia con ombitasvir/paritaprevir/ritonavir è risultata efficace e sicura anche in pazienti con insufficienza renale, garantendo nuove incoraggianti prospettive per il trattamento dell’HCV.

Bibliografia:

1) Arai T et al. Efficacy and safety of ombitasvir/paritaprevir/ritonavir combination therapy for genotype 1b chronic hepatitis C patients complicated with chronic kidney disease. Hepatol Res. 2018 Jan 9. 

2) http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/246177/1/WHO-HIV-2016.06-eng.pdf

 

   

  

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