Farmacovigilanza

Esposizione intrauterina a farmaci biologici: risultati rassicuranti sulla sicurezza a breve termine.

Recentemente sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Annals of the Rheumatic Diseases i risultati di uno studio di popolazione, condotto sui dati di un registro canadese, secondo i quali l’utilizzo di farmaci biologici prima e durante la gravidanza non risulta associato ad un aumento del rischio di parto pre-termine né di nascita di bambini sottopeso per l’età gestazionale (small-for-gestational-age, SGA).

I farmaci biologici, i cui principi attivi sono molecole prodotte o estratte da una sorgente biologica, sono spesso utilizzati per trattare giovani donne affette da patologie autoimmuni, come quelle reumatiche e quelle infiammatorie croniche intestinali. Poiché alcune di queste, come l’artrite, colpiscono con maggiore frequenza le donne e sono caratterizzate da insorgenza in età fertile, la sicurezza d’uso dei farmaci biologici in gravidanza risulta una problematica di interesse rilevante. Infatti tali farmaci, seppur con una certa variabilità, sono in grado di attraversare la placenta e, pertanto, possono potenzialmente avere effetti sul feto e sul suo sviluppo [1]. Le evidenze in tale ambito risultano scarse; i pochi dati disponibili, infatti, provengono da studi caratterizzati da un’esigua numerosità campionaria e dalla scelta di gruppi di controllo talora non adeguati. L’uso dei farmaci biologici in gravidanza e allattamento viene, quindi, sconsigliato quasi sempre per mancanza di informazioni, piuttosto che per un rischio effettivamente verificato. Difatti si raccomanda la sospensione temporanea delle terapie con farmaci biologici prima del concepimento, per un periodo di tempo variabile a seconda del farmaco, e per l’intera fase gestazionale [2].

I meccanismi patologici coinvolti nelle patologie autoimmuni, quali artrite reumatoide, spondilite anchilosante, artrite psoriasica, psoriasi e malattie infiammatorie intestinali, sono sostenuti principalmente da disfunzioni o alterazioni relative all’attività di citochine e chemochine, mediatori chiave del sistema immunitario. In particolare, una citochina-chiave coinvolta nelle risposte immunitarie anomale è il tumor necrosis factor-alfa (TNF-α), capace di modulare l’azione della ciclossigenasi. È ben noto come in gravidanza la ciclossigenasi influenzi, a sua volta, diversi processi, quali l'impianto della blastocisti, la permeabilità e decidualizzazione dell’endometrio (ovvero tutte le modificazioni morfologiche e biochimiche del tessuto stromale endometriale che permettono l'impianto dell'embrione) nonché il travaglio. Alla luce di tali effetti, è stato dimostrato che alti livelli di TNF-alfa e altre citochine si correlano a complicanze della gravidanza, soprattutto parto pretermine, ritardo della crescita fetale e aborti spontanei. Al contempo, le evidenze suggeriscono che un’elevata attività delle patologie autoimmuni al momento del concepimento e durante la gravidanza risulta correlata ad un aumento del rischio di outcomes materni e neonatali avversi.

Lo studio recentemente pubblicato ha valutato il rischio di parto pretermine e di nascita di bambini SGA usando i dati di un registro canadese (Population Data British Columbia), dal quale sono state estrapolate le informazioni relative alle donne in stato di gravidanza, affette da una patologia autoimmune e trattate con farmaci biologici. L’esposizione a tali farmaci è stata definita da almeno una prescrizione per tali farmaci nei 3 mesi prima o durante la gestazione. Inoltre, i dati delle donne esposte prima o durante la gravidanza sono stati incrociati con quelli relativi a donne in gravidanza non esposte, secondo un rapporto 1:5 usando la metodica del high-dimensional propensity scores (HDPS). L’eventuale correlazione tra l’uso dei farmaci biologici e il rischio di parto pretermine o nascita SGA è stata, invece, valutata usando il modello di regressione logistica. Complessivamente l’analisi è stata condotta su 109 donne, andate incontro a gravidanza dal 2002 al 2012 ed esposte a farmaci biologici, quali infliximab (N=58), etanercept (N=48), adalimumab (N=40), certolizumab (N<5), ustekinumab (N<5), rituximab (N<5), golimumab (N<5) e alefacept (N<5). Da una prima analisi dei dati, non corretta per fattori confondenti, è emerso un aumento statisticamente significativo del rischio di parto pre-termine pari al 64% nelle donne esposte rispetto al gruppo di controllo (OR= 1,64; IC95%= 1,02-2,63), mentre per il rischio di nascita SGA è emerso un OR=1,34 (IC95%= 0,72-2,51). In seguito al matching dei dati per HDPS con i dati relativi a 600 gravidanze non esposte ai farmaci biologici, non è emerso alcun aumento significativo dei rischi di parto pre-termine e di nascita SGA (nascite pre-termine, OR=1,13; IC95%= 0,67-1,90; nascite sottopeso, OR=0,91; IC95%= 0,46-1,78). Pertanto, secondo i risultati di tale studio non risulta alcuna correlazione tra l’utilizzo pre- e durante la gravidanza ed un aumento del rischio di parto pre-termine o nascita SGA [3]. Sono, tuttavia, necessari ulteriori dati provenienti da studi clinici ad hoc che possano validare e supportare la sicurezza dei farmaci biologici in gravidanza.

Bibliografia:

[1] May Ching Soh, Lucy MacKillop. Biologics in pregnancy – for the obstetrician. The Obstetrician & Gynaecologist.2016;18:25–32.

[2] Kimme L. HyrichSuzanne M. M. Verstappen. Biologic therapies and pregnancy: the story so far. Rheumatology, Volume 53, Issue 8, 1 August 2014, Pages 1377–1385.

[3] Tsao NW, Sayre EC, Hanley G, et al. Risk of preterm delivery and small-for-gestational-age births in women with autoimmune disease using biologics before or during pregnancy: a population-based cohort study [published online March 1, 2018]. Ann Rheum Dis. 

COMUNICATO EMA: XOFIGO® NON DEVE ESSERE UTILIZZATO CON ZYTIGA® E PREDNISONE / PREDNISOLONE PER IL CANCRO ALLA PROSTATA

Recentemente è stata pubblicata un’importante nota informativa di sicurezza da parte dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) in cui sono riportate limitazioni d’uso per il farmaco Xofigo® (radium-223 dicloruro), utilizzato per il cancro alla prostata, a causa di un aumentato rischio di morte e fratture quando utilizzato in combinazione con Zytiga® (abiraterone acetato) e prednisone / prednisolone. Tale decisione è avvenuta in seguito ai dati preliminari di uno studio clinico di fase III attualmente in corso condotto su pazienti con carcinoma della prostata metastatico e metastasi ossee [1].

Il radio-223 dicloruro, principio attivo della specialità medicinale Xofigo®, è indicato nel trattamento di soggetti adulti affetti da carcinoma prostatico resistente alla castrazione, con metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali note. In particolare, il radio-223 va incontro ad un decadimento a sei fasi (fino a piombo-207), dando origine radionucleotidi a breve emivita che emittono energia sotto forma di particelle alfa (95,3%), beta (3,6%) e gamma (1,1%) [2].

L’abiraterone acetato, principio attivo di Zytiga®, inibisce l’attività degli enzimi coinvolti nella biosintesi del testosterone. La terapia ormonale con Zytiga®, definita ‘deprivazione androgenica’, ha l’obiettivo di bloccare o rallentare la sintesi del testosterone prodotto dai testicoli maschili in quanto, tale ormone endogeno stimola la crescita e la proliferazione del tumore alla prostata [3].

Dati desumibili dallo studio  prospettico di fase II eRADicAte avevano sottolineato che l’impiego di Xofigo® (radio-223 dicloruro) in associazione con Zytiga® (abiraterone acetato)e prednisone/ prednisolone, in pazienti con carcinoma prostatico resistente alla castrazione e metastasi ossee, avesse un impatto significativo nel prolungare e migliorare la qualità della vita (QOL) in questa delicata popolazione di pazienti [4].

Tuttavia, il Comitato per la Valutazione dei Rischi per la Farmacovigilanza (PRAC) dell'EMA ha recentemente esaminato i dati preliminari dello studio clinico ERA 223multicentrico di fase III, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, condotto su pazienti affetti da carcinoma della prostata metastatico etrattati, in rapporto di 1:1, con radio-223 dicloruro + abiraterone acetato + prednisone /prednisolone vs. placebo + abiraterone acetato + prednisone /prednisolone. Ad oggi il 34,7% dei pazienti arruolati nello studio ERA 223 e trattati con radio-223 dicloruro, abiraterone acetato e prednisone/ prednisolone sono deceduti rispetto al 28,2% di decessi osservati nel braccio di pazienti trattati con placebo, abiraterone acetato e prednisone/ prednisolone.Inoltre, lo studio in oggetto ha evidenziato che le fratture si sono verificate nel 26% di pazienti trattati con la combinazione radio-223 dicloruro, abiraterone acetato e prednisone/ prednisolone rispetto all’8,1% di fratture osservate nel braccio di pazienti trattati in combinazione con placebo. Data l’entità dei rischi connessi al trattamento di combinazione con radio-223 dicloruro, abiraterone acetato e prednisone/ prednisolone, tutti i pazienti arruolati nello studio ERA 223hanno interrotto il trattamento [1].

Alla luce di quanto esposto, data la gravità delle reazioni avverse osservate durante lo studio ERA 223,il PRAC ha introdotto misure di sicurezza temporanee fino al completamento di una revisione approfondita sul rapporto rischio/ beneficio di Xofigo®, richiesta dalla Commissione europea, ai sensi dell'articolo 20 del regolamento (CE) n . 726/2004 . In particolare, tutti gli operatori sanitari in Europa sono stati edotti nel non utilizzare Xofigo® con l'anti-androgeno Zytiga® o con farmaci antagonisti dei recettori degli androgeni di seconda generazione e prednisone /prednisolone in virtù delle evidenze che tale combinazione possa essere dannosa per i pazienti a causa di un possibile aumento del rischio di fratture e morte. Inoltre, sebbene entrambi i medicinali Xofigo® e Zytiga® possano continuare ad essere utilizzati separatamente, gli operatori sanitari sono obbligati a modificare il trattamento laddove i pazienti siano sottoposti a terapia di combinazione.

 

Bibliografia

1. Studio disponibile al sito: https://clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT02043678

2. Parker C. et al. Current approaches to incorporation of radium-223 in clinical practice. Prostate Cancer Prostatic Dis. 2018. [Epub ahead of print].

3. Thakur A, Roy A, Ghosh A, Chhabra M, Banerjee S. Abiraterone acetate in the treatment of prostate cancer. Biomed Pharmacother. 2018;101:211-218.

4. Shore ND et al. eRADicAte: A Prospective Evaluation Combining Radium-223 Dichloride and Abiraterone Acetate Plus Prednisone in Patients With Castration-Resistant Prostate Cancer. Clin Genitourin Cancer. 2017. [Epub ahead of print].

Possibile aumento del rischio di obesità infantile da esposizione intrauterina a metformina.

In accordo ai risultati di un recente studio pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, contrariamente a quanto atteso, i bambini esposti a metformina durante la gravidanza risultano maggiormente esposti al rischio di sovrappeso o obesità a lungo termine rispetto a quelli non esposti [1].
La metformina, farmaco antidiabete appartenente alla classe delle biguanidi, esercita i suoi effetti antiperglicemici riducendo la produzione di glucosio epatico mediante l’inibizione di gluconeogenesi e glicogenolisi, ritardando l’assorbimento del glucosio a livello intestinale e migliorando la captazione e l’utilizzo del glucosio periferico. Inoltre, la metformina risulta caratterizzata non solo da un buon profilo di efficacia, ma anche da un profilo di sicurezza favorevole, in quanto non agisce stimolando la secrezione di insulina e, pertanto, risulta associata ad un minor rischio di crisi ipoglicemiche rispetto ad altri farmaci antiperglicemici
.
L’utilizzo di metformina risulta sempre più diffuso per il trattamento del diabete gestazionale. Il farmaco, inoltre, seppur in modalità off-label, è prescritta per il trattamento della sindrome dell'ovaio policistico (PCOS), una sindrome complessa che include alterazioni endocrinologiche e metaboliche, quali iperandrogenismo, ovaie ingrandite e policistiche e cicli mestruali irregolari, e che colpisce il 3-8% delle donne in età fertile. Infatti, secondo i risultati di diversi studi la metformina, seppur non consigliata come farmaco di prima scelta nelle donne affette da PCOS, ne migliora il tasso di ovulazione riducendo, inoltre, il rischio di complicanze legate a tale condizione clinica, quali l’infertilità. In particolare, è stato osservato che la metformina potrebbe rivelarsi utile nella terapia combinata per le donne affette da PCOS con anovulazione resistente al clomifene citrato, prima di utilizzare gonadotropina o l’intervento chirurgico. Sebbene capace di attraversare la placenta, tale farmaco è sempre più utilizzata nelle donne in gravidanza, in quanto alla luce delle evidenze finora disponibili non risulta associata ad alcun rischio fetale quando usata in gravidanza [2]. Tuttavia, l'impatto a lungo termine dell’esposizione intrauterina sui nascituri esposti rimane poco chiaro, in quanto le poche evidenze disponibili, emerse da precedenti indagini, risultano contraddittorie.
Lo studio sopracitato ha valutato gli effetti a lungo termine della metformina vs placebo in 182 bambini, le cui madri, affette da PCOS, avevano ricevuto la metformina (1700 o 2000 mg/die) durante il periodo gestazionale. Gli endpoint primari di sicurezza a lungo termine hanno incluso altezza, peso, indice di massa corporea (BMI) e sovrappeso/obesità a 4 anni di età (dati disponibili per 161 bambini) e circonferenza della testa a 1 anno (dati disponibili per 154 bambini). Dai risultati di tale studio è emerso che, , la percentuale di bambini in sovrappeso/obesi di età superiore ai 4 anni nel gruppo metformina era maggiore rispetto al gruppo placebo (HR, 2,17; p=0,038), seppur alla nascita non mostrassero alcuna differenza significativa in termini di peso. Non è emerso, invece, alcun impatto dell’esposizione alla metformina sul parametro altezza. Secondo gli autori dello studio, la metformina potrebbe aumentare il peso dei nascituri attraverso due possibili meccanismi che coinvolgono possibili alterazioni metaboliche materne che influenzerebbero l'ambiente intrauterino oppure attravero un effetto diretto della metformina sulla prole, probabilmente attraverso l'inibizione della catena respiratoria dei mitocondri. I risultati di tale indagine sono stati sorprendenti, dal momento che finora, sulla base delle limitate ricerche, si ipotizzava che la metformina avesse un effetto protettivo sulla salute metabolica dei bambini. Inoltre, gli stessi autori hanno riconosciuto che tali risultati potrebbero non essere applicabili alle madri senza PCOS e il basso tasso di partecipazione potrebbe rappresentare una potenziale limitazione. Pertanto, sono necessarie ulteriori ricerche per determinarne gli effetti sui bambini che sono stati esposti al farmaco in utero.

Bibliografia

[1] Engen Hanem LG et al. Metformin use in PCOS pregnancies increases the risk of offspring overweight at 4 years of age; follow-up of two RCTs. J Clin Endocrinol Metab. Published online February 27, 2018.

[2] Penzias A. et al. Practice Committee of the American Society for Reproductive Medicine (2017). Role of metformin for ovulation induction in infertile patients with polycystic ovary syndrome (PCOS): a guideline. Fertility and Sterility, 108(3), 426-441.

Sclerosi multipla: EMA raccomanda la sospensione immediata e il ritiro dal mercato di Zinbryta®

In data 7 marzo 2018, l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) ha raccomandato la sospensione immediata e il ritiro dal mercato di Zinbryta® (daclizumab), utilizzato nel trattamento della sclerosi multipla recidivante-remittente. Tale decisione è avvenuta in seguito a 12 casi riportati da tutto il mondo di gravi disturbi infiammatori a livello cerebrale, tra cui encefalite e meningoencefalite, di cui tre ad esito fatale [1].

Daclizumab, autorizzato da EMA nel 2016, è un anticorpo monoclonale IgG1 umanizzato che lega selettivamente la subunità CD25 del recettore ad alta affinità per l’interleuchina 2 (IL-2) espresso sui linfociti T autoreattivi, che rappresentano i principali responsabili dell’infiammazione a livello del sistema nervoso centrale nei soggetti con sclerosi multipla recidivante-remittente .   
L’approvazione di daclizumab da parte della Commissione europea è stata supportata dai risultati ottenuti da due studi clinici controllati, randomizzati e in doppio cieco: lo studio di fase II SELECT e lo studio di fase III DECIDE. Tali studi hanno evidenziato una riduzione significativa del tasso di recidiva annualizzato in pazienti affetti da sclerosi multipla recidivante-remittente in trattamento con daclizumab e, in particolare, lo studio di fase III DECIDE, ha dimostrato la superiorità di daclizumab vs interferon β-1, con miglioramento significativo e riduzione delle lesioni attive [2, 3].
È importante sottolineare che il profilo di sicurezza del farmaco era già stato oggetto di attenzione del
Comitato di Valutazione dei Rischi per la Farmacovigilanza (PRAC) dell’EMA che, nel 2017, aveva raccomandato delle restrizioni d’uso, in seguito a quattro casi di gravi lesioni epatiche e ad un decesso di un paziente coinvolto in uno studio osservazionale [4].

In seguito ad una revisione preliminare, comunicata da EMA in data 2 marzo 2018 [5] e avviata al fine di valutare la comparsa di reazioni infiammatorie a livello cerebrale in pazienti in trattamento con Zinbryta®, EMA ha raccomandato la sospensione immediata dell'autorizzazione all'immissione in commercio (AIC) del medicinale nell'UE e il richiamo di tutti i lotti da farmacie e ospedali. Parallelamente all’avvio della revisione, le Aziende Farmaceutiche produttrici di daclizumab, Biogen e AbbVie, hanno deciso di ritirare volontariamente dal mercato mondiale il farmaco indicato nel trattamento della sclerosi multipla recidivante-remittente. Inoltre, Biogen ha informato EMA relativamente alla decisione di interrompere tutti gli studi clinici in corso con Zinbryta® all’interno dell’Unione Europea.

EMA raccomanda agli operatori sanitari di intraprendere nuove strategie terapeutiche e di contattare i pazienti attualmente in terapia con Zinbryta®,affinché sospendano tempestivamente il trattamento. Gli operatori sanitari dovranno, inoltre, monitorare mensilmente i pazienti fino a 6 mesi dopo la sospensione del farmaco ed intervenire nel caso in cui il paziente riferisse sintomi associati al danno epatico, quali febbre prolungata, forte mal di testa, stanchezza, ittero, nausea o vomito.            
Il paziente, invece, dovrà sospendere il trattamento, contattare il proprio medico al fine di intraprendere una nuova terapia ed informarlo relativamente alla comparsa di qualsiasi evento avverso.

La raccomandazione di EMA è stata inviata alla Commissione europea per una decisione legalmente vincolante.

Bibliografia

1.http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Referrals_document/Zinbryta_20_march_2018/Under_evaluation/WC500245166.pdf

2. Kappos L, Wiendl H, Selmaj K, et al. Daclizumab HYP versus Interferon Beta-1a in Relapsing Multiple Sclerosis. N Engl J Med. 2015 Oct 8; 373(15):1418-28.

3. Gold R, Giovannoni G, Selmaj K, Havrdova E, Montalban X, Radue EW, Stefoski D, Robinson R, Riester K, Rana J, Elkins J, O'Neill G; SELECT study investigators. Daclizumab high-yield process in relapsing-remitting multiple sclerosis (SELECT): a randomised, double-blind, placebo-controlled trial. Lancet. 2013 Jun 22; 381(9884):2167-75.

4.http://www.aifa.gov.it/sites/default/files/IT_Zinbryta_27.10.2017.pdf

5. http://www.aifa.gov.it/sites/default/files/IT_Zinbryta_encephalitis.pdf

FARMACI PER L’ALZHEIMER: EMA AGGIORNA LE LINEE GUIDA PER GLI STUDI CLINICI

Recentemente, il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha aggiornato la 'Guideline on the clinical investigation of medicines for the treatment of Alzheimer's disease' relativa agli studi clinici per i farmaci destinati al trattamento della malattia di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza senile caratterizzata da una progressiva degenerazione delle funzioni cognitive che si manifesta attraverso una serie di segni e sintomi a carico della sfera neuropsicologica, comportamentale e spazio-temporale. Dal punto di vista anatomopatologico, la malattia di Alzheimer presenta un quadro tipico di atrofia cerebrale a livello della corteccia temporo-parietale che si riflette soprattutto nella progressiva distruzione delle neurotrasmissioni colinergiche. Inoltre, a livello microscopico la patologia si distingue da altri tipi di demenza per la presenza di placche senili dovute a formazioni neurofibrillari delle proteine β-amiloide e tau fosforilata 1.

Dati pubblicati dall'Istituto Superiore di Sanità indicano che il numero dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer è destinato a crescere nei prossimi anni. Si stima che attualmente i pazienti affetti da tale patologia siano circa 47 milioni e il numero di malati potrebbe aumentare fino a 76 milioni nel 2030 e 135 milioni nel 2050 2.

Sino ad oggi, i farmaci disponibili per il trattamento della malattia di Alzheimer erano meramente sintomatici e, considerata l'incidenza crescente delle malattie neurodegenerative in tutto l'emisfero occidentale, è nata la necessità di sviluppare molecole capaci di modificare il naturale decorso della malattia 1-4.

Recenti studi hanno individuato nuovi pathways correlati alle alterazioni biologiche che sottendono la malattia di Alzheimer consentendo una maggiore comprensione della relativa etiopatogenesi. In particolare, i risultati degli studi suggeriscono che alcune alterazioni molecolari, patognomoniche della malattia di Alzheimer, potrebbero insorgere prima della manifestazione clinica conclamata 1-4.

A fronte di tali evidenze, numerosi trials clinici sono orientati allo sviluppo di biomarcatori in grado di stabilire la stadiazione della malattia di Alzheimer nonchè di farmaci specifici per ogni singola fase della patologia 3,4.

In questo contesto, nel gennaio 2016, il CHMP ha pubblicato la 'Guideline on the clinical investigation of medicines for the treatment of Alzheimer's disease' atta a fornire indicazioni per la valutazione di ogni farmaco impiegato nella malattia di Alzheimer in ciascuna delle fasi della patologia. Inoltre, tali linee guida hanno l'obiettivo di implementare un modello longitudinale che descriva i cambiamenti cognitivi che si osservano nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer attraverso l'identificazione di specifici biomarkers da utilizzare nelle sperimentazioni cliniche 3.

A fronte dei numerosi e recenti studi clinici condotti a livello mondiale, in data 28/02/2018, il CHMP ha revisionato le sopracitate linee guida. In particolare, tale revisione è orientata alla:

- valutazione, nell'ambito dell'implementazione del disegno degli studi clinici, dell'impatto dei nuovi criteri diagnostici negli stadi precoci e/o asintomatici della malattia di Alzheimer;

- scelta dei fattori da considerare nel corso della selezione di parametri atti a misurare i risultati dei trial nelle diverse fasi della malattia di Alzheimer;

- valutazione del potenziale impiego dei nuovi biomarkers nelle varie fasi dello sviluppo dei farmaci da utilizzare nella malattia di Alzheimer;

- implementazione l'analisi di studi di efficacia e sicurezza dei farmaci da utilizzare nel trattamento della malattia nell'Alzheimer 3.

Alla luce della revisione della 'Guideline on the clinical investigation of medicines for the treatment of Alzheimer's disease', in vigore a partire da settembre 2018, è auspicabile che nei prossimi anni siano disponibili nuove e più efficaci terapie per la malattia di Alzheimer.

Bibliografia

1. van Marum RJ. Current and future therapy in Alzheimer's disease. Fundam Clin Pharmacol. 2008 Jun;22(3):265-74.

2. Dati disponibili al sito: http://www.epicentro.iss.it/problemi/alzheimer/alzheimer.asp

3.Dati disponibili al sito:

http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Scientific_guideline/2018/02/WC500244609.pdf

4. Haas M et al. 'The European medicines Agency´s strategies to meet the challenges of Alzheimer disease.' Nat Rev Drug Discov, 2015, 14 221-222.

   

  

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