Farmacovigilanza

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) approva la rimborsabilità Otezla® (apremilast) per il trattamento della psoriasi cronica a placche.

In data 09 Aprile 2018, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 80 il riconoscimento della rimborsabilità da parte del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) della specialità medicinale Otezla® (apremilast) per il trattamento, per via orale, della psoriasi cronica a placche. Nello specifico, l’indicazione terapeutica autorizzata è “psoriasi cronica a placche da moderata a severa in pazienti adulti che non hanno risposto, che hanno una controindicazione o che sono intolleranti ad altra terapia sistemica comprendente ciclosporina, metotrexato o psoralene e raggi ultravioletti di tipo A (PUVA)”. La psoriasi presenta una prevalenza nella popolazione italiana di circa il 2,8%, di cui il 25-30% riguarda la forma moderata-grave. La psoriasi è una patologia cutanea infiammatoria immunomediata ad andamento cronico recidivante la cui genesi multifattoriale include fattori genetici, ambientali ed immunologici. La malattia insorge prevalentemente in due fasce di età, come forma precoce nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 30 anni o come forma tardiva nella fascia compresa tra i 50 e i 60 anni. Da un punto di vista clinico, la psoriasi si manifesta con placche eritemato-squamose localizzate principalmente su superfici estensorie di gomiti e ginocchia, regione lombosacrale, cuoio capelluto e regioni palmo-plantari.
Otezla®, prodotto dall’Azienda Farmaceutica Celgene Europe Limited e autorizzato all’immissione in commercio il 18 Gennaio 2015, è già rimborsato, in Italia, per il trattamento dell’artrite psoriasica attiva in pazienti adulti che abbiano risposto in modo inadeguato, o siano risultati intolleranti alla terapia con almeno due disease-modifying antirheumatic drug (DMARD) o nei quali l’uso dei farmaci biologici sia controindicato o non tollerato (Gazzetta Ufficiale n.34 del 10 Febbraio 2017). Apremilast, principio attivo della specialità medicinale Otezla®, è un inibitore della fosfodiesterasi 4 (PDE4) intracellulare, che ha dimostrato modulare l’attività di citochine pro- e anti-infiammatorie coinvolte nella patogenesi della psoriasi e dell’artrite psoriasica, quali il tumor necrosis factor-α (TNF-α), l’interleuchina (IL)-23, IL-17 e IL-10. Nello specifico, la PDE4 è un enzima particolarmente espresso nelle cellule coinvolte nell’infiammazione e la sua inibizione provoca un aumento dei livelli di adenosina monofosfato ciclico (cAMP), una sottoregolazione della risposta infiammatoria, e di conseguenza una alterazione dell’espressione di citochine infiammatorie.
L’efficacia e la sicurezza di apremilast è stata dimostrata in due ampi studi clinici di fase 3, multicentrici, randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo e condotti in un totale di 1257 pazienti con psoriasi a placche da moderata a grave (Efficacy and Safety Trial Evaluating the Effects of Apremilast in Psoriasis, ESTEEM-1 ed ESTEEM-2) [1,2]. L’endpoint primario era rappresentato dalla percentuale di pazienti che raggiungevano, alla settimana 16, una risposta del 75% dello Psoriatic Area and Severity Index (PASI)-75 nello studio ESTEEM-1 e una risposta del 50% del PASI (PASI-50) nello studio ESTEEM-2. Dai risultati di tali studi, è emerso che la risposta PASI conseguita alla settimana 16 (PASI-75: -77,7 ± (SD) 20,30; PASI-50: -69,7 ± 24,23) era mantenuta fino alla settimana 52 (PASI-75: -80,5 ± 12,60; PASI-50: -74,4 ± 18,91). Il beneficio clinico di apremilast è stato confermato anche in diversi sottogruppi di pazienti, definiti in base alle caratteristiche demografiche e alle caratteristiche cliniche della malattia al basale, includendo la durata della psoriasi e la presenza di anamnesi positiva per l’artrite psoriasica. Il beneficio clinico di apremilast è stato dimostrato, inoltre, indipendentemente dall’utilizzo di precedenti terapie farmacologiche o dalla risposta a precedenti trattamenti per la psoriasi, quali fototerapia, DMARD o farmaci biotecnologici. Infine, la risposta ad apremilast rispetto al placebo è stata evidenziata già alla settimana 2 con miglioramenti clinici significativi nei segni e sintomi della psoriasi, quali prurito e dolore cutaneo. Le reazioni avverse più comunemente segnalate negli studi clinici di fase 3 sono state diarrea (15,7%), nausea (13,9%), infezioni delle vie respiratorie superiori (8,4%) e cefalea (7,9%).
Alla luce di tali risultati, il trattamento con apremilast per la psoriasi risulta efficace e ben tollerato, rappresentando per l’unicità del suo meccanismo d’azione il primo di una nuova classe di farmaci, somministrati per via orale, ad essere rimborsati dal SSN.

Referenze

1. Papp K, Reich K, Leonardi CL, et al. Apremilast, an oral phosphodiesterase 4 (PDE4) inhibitor, in patients with moderate to severe plaque psoriasis: results of a phase III, randomized, controlled trial (Efficacy and Safety Trial Evaluating the Effects of Apremilast in Psoriasis [ESTEEM 1]). J Am Acad Dermatol. 2015;73(1):37-49.

2. Paul C, Cather J, Gooderham M, et al. Efficacy and safety of apremilast, an oral phosphodiesterase 4 inhibitor, in patients with moderate to severe plaque psoriasis over 52 weeks: a phase III, randomized, controlled trial (ESTEEM 2). Br J Dermatol. 2015;173(6):1387-1399.

IBUPROFENE E PARACETAMOLO HANNO MOSTRATO UN’EFFICACIA PARAGONABILE ALLA MORFINA NEL TRATTAMENTO DI PRIMA LINEA DEL DOLORE POST-OPERATORIO NEL BAMBINO

I risultati di un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Evidece Based Nursing hanno dimostrato che l’impiego di ibuprofene e paracetamolo nel trattamento di prima linea del dolore post-operatorio in pazienti pediatrici presenta un’efficacia paragonabile alla morfina, con minor rischio di insorgenza di reazioni avverse [1].

La cura del dolore nel bambino è un dovere etico ed un esempio di buona pratica clinica. Come noto, un’adeguata analgesia contribuisce a facilitare i tempi di recupero post-operatorio ed accelerare la riabilitazione [1,2].

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in base alle caratteristiche e all’entità del dolore in età pediatrica, ha raccomandato come standard di cura nel trattamento di prima linea del dolore lieve i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), paracetamolo o ibuprofene, mentre nel caso del dolore di grado moderato-severo l’impiego di analgesici oppioidi. Tuttavia, l’utilizzo degli analgesici oppioidi è limitato dalla possibile esposizione dei pazienti a gravi reazioni avverse, tra cui si annovera depressione respiratoria a livello bulbare nonché, nei pazienti pediatrici, un potenziale aumento del rischio di abuso di oppioidi in età adulta [2].

In questo contesto è nata l’esigenza di individuare opzioni terapeutiche alternative ai farmaci oppioidi per la gestione del dolore postoperatorio in pediatria, in modo da ottenere un’azione analgesica equiparabile e, al contempo, un miglior profilo di tollerabilità.

Lo studio di Poonai et al. 2014, ha dimostrato che, a parità di efficacia analgesica, l'ibuprofene potrebbe rappresentare una valida alternativa terapeutica alla morfina nel trattamento del dolore da fratture ossee nel bambino [3]. A conferma di tali evidenze, una revisione sistematica della letteratura, ha dimostrato che la combinazione terapeutica di paracetamolo con ibuprofene è più efficace dei singoli farmaci nella gestione del dolore acuto postoperatorio in una popolazione di 378 bambini. Gli autori dello studio hanno concluso che l’impiego combinato di suddetti farmaci in pratica clinica presenta un profilo di tollerabilità migliore rispetto agli analgesici oppioidi [4].

Alla luce di quanto esposto, Groenewald et al. hanno implementato uno studio randomizzato controllato intention-to treat su una popolazione di pazienti pediatrici sottoposti a chirurgia ortopedica ambulatoriale al fine di valutare l’efficacia dell’ibuprofene in associazione a paracetamolo rispetto alla morfina nel controllo del dolore postoperatorio. I risultati hanno mostrato che la morfina non era superiore all'ibuprofene combinato con paracetamolo nella gestione del dolore postoperatorio. Pertanto, gli autori suggeriscono di sensibilizzare gli operatori sanitari nell'introduzione di ibuprofene e paracetamolo come analgesici di prima linea nel trattamento del dolore post operatorio nei pazienti pediatrici in virtù sia del ridotto rischio di insorgenza di eventi avversi gravi rispetto alla morfina che dell’efficacia dimostrata.

Bibliografia

1. Groenewald CB. Morphine is not superior to ibuprofen for managing children's pain following minor orthopedic surgery.Evid Based Nurs. 2018. pii: ebnurs-2017-102855. 

2. Richards P. et al. Comparison of the Efficacy and Safety of Dual-Opioid Treatment With Morphine Plus Oxycodone Versus Oxycodone/Acetaminophen for Moderate to Severe Acute Pain After Total Knee Arthroplasty. Clin Ther. 2013. pii: S0149-2918(13)00112-4.

3. Poonai N, Bhullar G, Lin K, Papini A, Mainprize D, Howard J, Teefy J, Bale M, Langford C, Lim R, Stitt L, Rieder MJ, Ali S. Oral administration of morphine versus ibuprofen to manage postfracture pain in children: a randomized trial. CMAJ. 2014;186(18):1358-63

4. Ong CK. et al. Combining paracetamol (acetaminophen) with nonsteroidal antiinflammatory drugs: a qualitative systematic review of analgesic efficacy for acute postoperative pain. Anesth Analg. 2010;110(4):1170-9.

Nuovi dati di real life confermano la riduzione del rischio cardiovascolare associato al trattamento con inibitori di SGLT-2 per il diabete mellito di tipo 2

Dai risultati di un recente studio condotto in real life, CVD-REAL 2, è emerso che gli inibitori del trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT-2), utilizzati nel trattamento del diabete mellito di tipo 2, sembrano essere associati ad un minor rischio cardiovascolare. In particolare, rispetto ad altri farmaci antidiabete, il trattamento con un inibitore SGLT-2 ha determinato una riduzione del rischio di decesso, di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca e di insorgenza di infarto del miocardio e ictus [1].

Lo studio multicentrico CVD-REAL 2, pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology e presentato al 67° American College of Cardiology Scientific Sessions (ACC.18) di Orlando in Florida, ha incluso 470.128 pazienti in trattamento con inibitori SGLT-2 o con altri farmaci antidiabete in sei paesi dell'Asia Pacifica, del Medio Oriente e del Nord America (Australia, Canada, Israele, Giappone, Singapore e Corea del Sud). Nel gruppo di pazienti in trattamento con gli inibitori SGLT-2 il 75% era in trattamento con dapaglifozin, il 9% con empaglifozin, l’8% con ipraglifozin, il 4% con canaglifozin, il 3% con tofoglifozin e l’1% con luseogliflozin. Rispetto al trattamento con altri farmaci antidiabete, quello con gli inibitori SGLT-2 ha mostrato un tasso di insorgenza di eventi cardiovascolare minore e, nello specifico, è risultata ridotta la percentuale di decessi (0,70 vs 1,98), l’insorgenza di insufficienza cardiaca (0,60 vs 3,73), di infarto del miocardio (0,30 vs 1,15), di ictus (0,74 vs 3,37) e la combinazione di decesso per tutte le cause e ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (1,23 vs 5,31) [1].

Tali risultati sono in linea con quelli ottenuti da un altro studio del programma CANVAS (Canaglifozin Cardiovascular Assessment Study), pubblicato recentemente e presentato sempre nell’ambito dell’ACC.18, dal quale è emerso che nei pazienti con diabete mellito di tipo 2 ad elevato rischio cardiovascolare canaglifozin ha ridotto il rischio di morte cardiovascolare o di insufficienza cardiaca ospedalizzata in un'ampia percentuale di pazienti. Il farmaco, infatti, è associato ad una riduzione significativa del 22% del rischio di morte cardiovascolare o insufficienza cardiaca, del 30% per insufficienza cardiaca fatale o ospedalizzata e del 33% per la sola insufficienza cardiaca [2].

Lo studio CVD-REAL 2 presenta, tuttavia, numerose limitazioni, tra cui la mancanza di dati relativi alla sicurezza a lungo termine, in quanto, trattandosi di uno studio osservazionale, l’attenzione è stata rivolta principalmente agli eventi avversi nell’ambito del sistema cardiovascolare.

In conclusione, nonostante i risultati ottenuti dagli studi di fase IV siano favorevoli all’utilizzo degli inibitori SGLT-2 nel trattamento del diabete mellito di tipo 2 in pazienti ad elevato rischio cardiovascolare, risulta necessario condurre ulteriori studi al fine di delineare al meglio il profilo di efficacia e di sicurezza di questi farmaci.

Bibliografia

1. Kosiborod M, Lam CSP, Kohsaka S, Kim DJ, Karasik A, Shaw J, Tangri N, Goh SY, Thuresson M, Chen H, Surmont F, Hammar N, Fenici P; CVD-REAL Investigators and Study Group. Lower Cardiovascular Risk Associated with SGLT-2i in >400,000 Patients: The CVD-REAL 2 Study. J Am Coll Cardiol. 2018 Mar 7.

2. Rådholm K, Figtree G, Perkovic V, Solomon SD, Mahaffey KW, de Zeeuw D, Fulcher G, Barrett TD, Shaw W, Desai M, Matthews DR, Neal B. Canagliflozin and Heart Failure in Type 2 Diabetes Mellitus: Results From the CANVAS Program (Canagliflozin Cardiovascular Assessment Study). Circulation. 2018 Mar 11.

Parere positivo del CHMP per l’autorizzazione all’immissione in commercio di due nuovi biosimilari di infliximab e trastuzumab

In data 22 marzo 2018, il Comitato per i Medicinali per uso umano (CHMP) dell'Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) ha espresso il parere favorevole per il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) per due nuovi biosimilari di infliximab (Zessly®) e trastuzumab (Kanjinti®).

Zessly®, sviluppato dall’Azienda farmaceutica Novartis, è il terzo biosimilare di infliximab (insieme a Remsima® e Inflectra®) che si è dimostrato in termini di qualità, sicurezza ed efficacia comparabile all’originator Remicade®, autorizzato nell’Unione Europea nel 1999.      
Infliximab è un anticorpo chimerico, umano-murino, monoclonale, che si lega con alta affinità sia alla forma solubile che a quella transmembrana del TNFα, citochina proinfiammatoria che gioca un ruolo chiave nella reazione autoimmune. Zessly® sarà indicato nel trattamento dell’artrite reumatoide, del morbo di Crohn, della colite ulcerosa, della spondilite anchilosante, dell’artrite psoriasica e della psoriasi. In particolare, il nuovo biosimilare verrà utilizzato in associazione a metotrexato nel trattamento dell’artrite reumatoide in pazienti adulti, mentre verrà somministrato in monoterapia per le altre indicazioni terapeutiche sopracitate. Inoltre, sarà indicato in bambini e adolescenti di età compresa tra 6 a 17 anni nel trattamento del morbo di Cohn e della colite ulcerosa [1].

Dagli studi di fase III condotti per Kanjinti®, biosimilare di trastuzumab sviluppato dalle Aziende farmaceutiche Amgen e Allergan, è emerso che il farmaco è comparabile in termini di qualità efficacia e sicurezza all’originator Herceptin®, autorizzato, invece, nell’Unione Europea nel 2000. Tale biosimilare verrà indicato nel trattamento di pazienti adulti affetti da carcinoma mammario o gastrico. In particolare, il farmaco verrà utilizzato: in monoterapia o in associazione a paclitaxel o docetaxel nel trattamento nel carcinoma mammario metastatico HER2 positivo, in associazione ad altri agenti chemioterapici (doxorubicina, ciclofosfamide, paclitaxel, docetaxel, carboplatino) o a radioterapia nel trattamento di pazienti adulti con carcinoma mammario in fase iniziale HER2 positivo ed, infine, in associazione a capecitabina o 5-fluorouracile e cisplatino nel trattamento di pazienti adulti con adenocarcinoma metastatico dello stomaco o della giunzione gastroesofagea HER2 positivo [2]. Trastuzumab è un anticorpo monoclonale che si lega con un’elevata affinità e specificità al dominio extracellulare di HER2 e ne inibisce l’attivazione. Conseguentemente, trastuzumab è in grado di inibire la proliferazione delle cellule tumorali umane che esprimono in misura maggiore HER2. Inoltre, trastuzumab è un potente mediatore della citotossicità anticorpo dipendente cellulo-mediata e in vitro tale azione ha dimostrato di essere esercitata in maniera preferenziale sulle cellule tumorali con iperespressione di HER2, rispetto alle cellule tumorali che non iperesprimono HER2.

Le informazioni dettagliate relative all'uso dei biosimilari Zessly® e Kanjinti® saranno riportate nelle rispettive schede tecniche (riassunto delle caratteristiche del prodotto), che saranno pubblicate European public assessment report (EPAR) e rese disponibili in tutte le lingue ufficiali dell'Unione europea dopo che la Commissione europea ha concesso l'autorizzazione all'immissione in commercio.

Bibliografia

1.http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Summary_of_opinion__Initial_authorisation/human/004647/WC500246338.pdf

2.http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Summary_of_opinion__Initial_authorisation/human/004361/WC500246366.pdf

Inibitori di pompa e rischio cardiovascolare: i dati di una revisione sistematica.

Recentemente, sulla rivista scientifica Heart, Lung and Circulation, è stata pubblicata una revisione sistematica secondo la quale è emerso un significativo incremento del rischio cardiovascolare nei pazienti trattati con inibitori di pompa (IPP).        
Gli IPP, i quali agiscono inibendo l’azione della pompa protonica K+/H+-ATPasi, costituiscono la classe di farmaci più efficace nell’inibizione della secrezione acido-gastrica, la cui scoperta ha rivoluzionato il trattamento e la prevenzione di diverse malattie gastro-intestinali acido-correlate, quali esofagiti da reflusso, dispepsia, sindrome di Zollinger-Ellison nonché ulcere gastroduodenali in pazienti che necessitano di un trattamento continuativo con farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS). Poiché caratterizzati da un buon profilo di sicurezza e tollerabilità, gli IPP rappresentano una delle classi di farmaci maggiormente prescritte in Italia. Infatti, secondo i dati dell’ultimo rapporto OsMed pubblicato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, l’intera classe terapeutica rimane saldamente al primo posto in termini di spesa farmaceutica convenzionata ed in particolare gli IPP pantoprazolo, lansoprazolo, omeprazolo ed esomeprazolo sono tra i primi 30 principi attivi a maggior spesa convenzionata e consumo dell’anno 2016. [1].       
Tuttavia, soprattutto in seguito a diversi studi che hanno messo in evidenza un loro utilizzo eccessivo ed inappropriato [2], negli ultimi anni sono emerse diverse preoccupazioni di sicurezza rispetto ai possibili eventi avversi a lungo termine correlati a tali farmaci, quali patologie cardiovascolari, diminuita funzionalità renale, disordini nutrizionali, infezioni, demenza e mortalità [3].
Rispetto al rischio della morbidità e mortalità cardiovascolare correlato agli IPP, inizialmente messo in evidenza solo in pazienti in trattamento concomitante con clopidogrel, il dibattito resta ancora aperto.
La suddetta revisione sistematica è stata condotta effettuando una ricerca di tutti gli studi, pubblicati da gennaio 1990 ad ottobre 2016, in cui fossero stati valutati gli effetti del trattamento con IPP sulla mortalità da tutte le cause e sugli eventi avversi cardiovascolari, quali infarto miocardico, ictus o eventi arteriosi periferici. Sono stati, dunque, inclusi gli studi che avessero come un gruppo di controllo costituito da pazienti non esposti a IPP, mentre sono stati esclusi quelli in cui fossero state indagate interazioni tra IPP e clopidogrel, risultando così eleggibili complessivamente 6 studi. Da una stima dei dati aggregati dei singoli studi è emerso un incremento statisticamente significativo sia del tasso di mortalità da tutte le cause (OR 1,68; IC95% 1,53-1,84; p< 0,001) che degli eventi cardiovascolari (OR 1,54; IC95% 1,11-2,13; p=0,01) nei pazienti trattati con IPP rispetto a quelli non esposti [4]. Diverse sono state le ipotesi formulate per mettere in evidenza la plausibilità biologica e, dunque, i possibili meccanismi che sottendono i rischi correlati all’utilizzo degli IPP. In particolare, l’incremento del rischio cardiovascolare da IPP sembrerebbe essere correlato all’induzione da parte di tale classe di farmaci di una disfunzione endoteliale per alterazioni a carico del pathway dell’ossido nitrico (NO), a possibili meccanismi pro-aritmici dovuti all’alterato assorbimento di calcio e magnesio farmaco-indotto o, ancora, allinibizione dell’isoenzima CYP2C19 esercitata dagli IPP, che nel caso di utilizzo concomitante di clopidogrel comporta una riduzione dell’attivazione di quest’ultimo e dunque del suo effetto antiaggregante piastrinico, con un incremento del rischio di eventi trombotici [5].        
Va sottolineato, tuttavia, che tale revisione sistematica presenta alcuni limiti, in termini di numerosità ed eterogeneità degli studi inclusi. Pertanto, tali risultati richiedono certamente ulteriori validazioni attraverso la conduzione di ulteriori studi interventistici ed osservazionali nonchè ricerche sistematiche e metanalisi al fine di ottenere dati e stime più robuste.

[1] Rapporto OsMed _ http://www.aifa.gov.it/content/luso-dei-farmaci-italia-rapporto-osmed-2016

[2] Joel J. HeidelbaughAndrea H. KimRobert Chang, and Paul C. Walker. Overutilization of proton-pump inhibitors: what the clinician needs to know. TherapAdvGastroenterol. 2012 Jul; 5(4): 219–232.

[3] Corsonello A, Lattanzio F, Bustacchini S, Garasto S, Cozza A, Schepisi R, Lenci F, Luciani F, Maggio MG, Ticinesi A, Butto V, Tagliaferri S, Corica F. Adverseevents of protonpumpinhibitors: potentialmechanisms. CurrDrugMetab. 2017 Dec 7.

[4] Shiraev TP, Bullen A. Proton Pump Inhibitors and Cardiovascular Events: A Systematic Review. Heart Lung Circ. 2018 Apr;27(4):443-450.

[5] Corsonello A, Lattanzio F, Bustacchini S, Garasto S, Cozza A, Schepisi R, Lenci F, Luciani F, Maggio MG, Ticinesi A, Butto V, Tagliaferri S, Corica F. Adverse events of proton pump inhibitors: potential mechanisms. Curr Drug Metab. 2017 Dec 7.

   

  

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